Esprimere la semplicità del pensiero. Si presenta così “Io Penso Che”, foto-progetto no profit nato nel gennaio 2015 grazie all’intuizione di Emilio Porcaro, giovane architetto napoletano con una spiccata vocazione per obiettivi, diaframma e shutter. Una passione per la fotografia che si è concretizzata qui, in questi oltre 700 ritratti scattati con la sua Canon; persone conosciute sul momento o pochi giorni prima, che reggono un cartello su cui è impresso un pensiero. Semplice, immediato, diretto, personale. Senza troppi arzigogoli mentali. “Io Penso Che”, per l’appunto.
L’idea è proprio quella di esprimere la semplicità e la chiarezza di un pensiero o di un sentimento: «A tal proposito, io parlerei persino di progetto sociale – ci spiega Emilio – facci caso: oggi non ci mettiamo più la faccia, letteralmente. Non si ha il coraggio di stare assieme, o di stare davanti a una persona per dire chiaramente determinate cose. Siamo sempre “protetti” dallo schermo di un social network o di uno Smartphone. Ecco, a me questo non piace. Il rapporto umano è basato sulla conoscenza “vera” dell’altro. È questo principio che vorrei recuperare attraverso le mie foto».
Semplicità fa rima con banalità; ma di certo non parliamo della stessa cosa. Se è parecchio facile scadere nella seconda, esprimere la prima è la prova più difficile del mondo: «Il fatto di dire senza costruzioni mentali ciò che si pensa, ciò che vorremmo comunicare chiaramente all’altro, senza giri di parole. “Io penso che” nasce e cresce con questa idea di fondo, senza timore che gli altri possano reagire in malo modo i nostri pensieri o le nostre opinioni». Un progetto che si è poi esteso nelle principali città italiane, come anche a Londra e (nell’immediato futuro) a Berlino. «Il pensiero è ovunque – dice Emilio – non mi piace fossilizzarmi su di un unico territorio. Le radici sono importanti, certo. Ma bisogna anche saper guardare avanti, spaziare, allargare i confini».
Ed è per questo che, a settembre 2015, la squadra di “Io penso che” si è allargata notevolmente: oltre a Emilio, il nucleo napoletano è composto da Mario Falco (che cura il sito web), Guglielmo Verrienti (alla post-produzione), Federica Cilento e Linda Russomanno (videomaker). Fabrizio Colucci ed Eleonora Litta curano il progetto da Firenze, mentre nelle principali città italiane troviamo almeno un fotografo: Marco Rinaldi a Palermo, Annarita Cattolico a Roma, Baldassarre Tudisco a Torino, Jacopo Ardolino a Milano. Nel giro di appena otto mesi, Emilio è riuscito a mettere su una squadra di tutto rispetto. La domanda, come direbbe qualcuno, sorge spontanea: come ci sei riuscito? «Non ho fatto altro che chiedere, in modo chiaro e diretto, come da filosofia del progetto. Mi sono rivolto a un gruppo di amici e conoscenti che hanno accolto con piacere l’idea. Avere rapporti diretti con gli altri, evidentemente, è una convinzione ancora radicata nelle persone, cosa di cui non posso che essere felice».
I frutti del progetto sono visibili anche fuori dalla pagina Facebook che conta oltre 7mila fan. Nel corso di un anno e mezzo sono già sei le mostre messe in piedi tra Napoli e Firenze, alla Casina Pompeiana come alla Fonoteca del Vomero, passando per il Teatro Bellini e il vicino Slash. Un successo figlio dell’istinto, per così dire: «Sì, vado molto a sensazione – ci confida Emilio – credo sia bellissimo relazionarsi con persone conosciute per caso, per strada, in stazione, alla fermata dell’autobus. Mi capita spesso di chiedere così, d’improvviso, a una persona mai vista prima di farsi fotografare; d’altra parte il progetto è nato proprio con questa vocazione qui. E devo essere sincero: spesso le persone accettano, vincendo l’iniziale e comprensibile diffidenza». Ma, al di là dei soggetti ritratti “d’istinto”, c’è qualcuno che ti piacerebbe fotografare? «Beh, da addetto ai lavori ti posso indicare il mio architetto preferito: Mario Cucinella. L’ho sempre trovato una persona e un professionista interessante, mi piacerebbe molto sapere cosa pensa del nostro lavoro». Ma in definitiva, Emilio, tu… cosa pensi? «Penso che bisogna comprendere cosa vale la pena di attendere. Per cosa vale la pena lavorare e cosa bisogna coltivare. Non bisogna aver fretta di ottenere tutto e subito: i rapporti umani cambiano e si evolvono. Più attendi di conoscere una persona, più puoi rimanere colpito da quanto poi si riveli interessante. D’altra parte, col mio modo di vivere, sto ancora attendendo ciò che può essere “giusto” per me». Una chiacchierata che si conclude così, tra una birra e una coca-cola alla stazione centrale. In quel luogo di passaggio dove “l’attesa” si trasforma in conoscenza reciproca.